Il legame tra le parole e i fatti nel mondo di Ingeborg Bachmann:
Il trentesimo anno, un romanzo-saggio sull'argomento.
"Per lui, dunque, si sarebbe aperto un mondo dipinto con colori definiti una volta per tutte, un mondo in cui il bianco e il nero mai si sarebbero confusi e che mai sarebbe stato inquietato da zone d'ombra. Un mondo in cui gli effetti delle sue azioni passate sarebbero svaniti approdando, così, ad una sorta di comodo game over. Il suo mondo era destinato a ricominciare, se necessario, ogni volta daccapo. Un mondo che rinasceva con lui […] E invece egli scopre drammaticamente che alcun privilegio gli è riservato e che nulla è definito una volta per tutte: né sentimenti, né carattere, né persone e né cose".
Nel mondo a cui appartengono i protagonisti di Il Trentesimo anno di Ingeborg Bachmann le parole contano più dei fatti, dal momento che solo attraverso le parole quei fatti sono riconoscibili e interpretabili. Pertanto, se e quando i significati diventano troppo sfumati, anche la realtà, inevitabilmente, rischia di apparire meno definita. Il distanziamento tra il linguaggio e i fatti ha, come causa principale, la complessità della vita, che destina all'inevitabile insuccesso il tentativo di etichettare eventi e caratteri secondo una struttura interpretativa definitiva e, in quanto tale, accomodante e rassicurante.
Eppure, se si rinuncia a salire sul carro del conformismo, ci si rende conto che questo distanziamento non è necessariamente un male. Svincolarsi dai significati standard e dalle modalità interpretative canoniche avvicina i fatti alla loro essenzialità- nel senso di essenza, non di semplificazione- agevolandone, così, una comprensione coerente, funzionale, efficace. Sempreché si disponga delle parole necessarie allo scopo e della volontà di utilizzarle (oltre alle necessarie competenze).
Il rovescio della medaglia è che lo scollamento tra la parola e il suo significato abituale, quello più confortante ma forse meno vero, genera inevitabilmente due mondi, difficilmente conciliabili, di cui il primo costituisce un interno ed il secondo un esterno. Esempi: il mondo che racchiude se stessi e quello che include gli altri, il passato e il presente, il desiderato e il possibile, memoria e attualità, immagine e sostanza, ruolo e persona, ciò che si è e ciò che si finge di essere, illusione e svelamento. In ogni caso, si tratta sempre e comunque di un interno e di un esterno destinati a mai incontrarsi. L'elemento tragico è che non sempre si è in grado di riconoscere, dentro e fuori di sé, i segni dell'una o dell'altra dimensione né, tantomeno, di individuarne le connessioni. Segni di maturità sono l'accoglienza, nel proprio apparato mentale e nella propria struttura emotiva, di questa sorta di impotenza e la disponibilità a conviverci senza che questo, però, implichi necessariamente la rinuncia a cercarla, quella conciliazione, dunque a non abbandonarsi alla confusione ed alla ambiguità di idee e comportamenti.
È proprio questa tragicità a rappresentare il filo conduttore che unisce i vari racconti inclusi nell'opera della Bachmann, dove, attraverso storie solo formalmente diverse, i vari personaggi trascorrono la loro esistenza nella ricerca dell'integrazione tra quei due mondi e nell'inseguimento di una coerenza che investa non solo la comprensione dei fatti ma la loro stessa vita, che da quei fatti-nella loro essenzialità-dipende.

Tra i sette racconti che compongono il libro ne scegliamo due di particolare rilievo rispetto alle precedenti riflessioni: Il trentesimo anno e Tutto.
Il primo è la descrizione del momento in cui nel il protagonista si infrange l'illusione di una vita vissuta, fino al compimento del trentesimo anno, in una sorta di letargo accogliente, rassicurante e, allo stesso tempo, elettrizzante: un'esistenza orientata dall'illusione che gli sarebbe stato concesso -quasi come se la vita glielo dovesse per obbligo- quel che invece era negato al resto dell'umanità: realizzazione dei sogni, chiarezza dei sentimenti verso i propri simili che, a loro volta, gli si sarebbero mostrati altrettanto chiaramente fino a formare una collettività di estranei, sì, ma priva di ambiguità e, perciò, da considerare come un rassicurante riferimento.
Per lui, dunque, si sarebbe aperto un mondo dipinto con colori definiti una volta per tutte, un mondo in cui il bianco e il nero mai si sarebbero confusi e che mai sarebbe stato inquietato da zone d'ombra. Un mondo in cui gli effetti delle sue azioni passate sarebbero svaniti approdando, così, ad una sorta di comodo game over. Il suo mondo era destinato a ricominciare, se necessario, ogni volta daccapo. Un mondo che rinasceva con lui.
"Perché prima di allora aveva vissuto semplicemente alla giornata[…]S'immaginava di avere innumerevoli possibilità e credeva, per esempio, di poter diventare qualsiasi cosa:[…]Un grand'uomo, un faro per l'umanità[…]si vedeva costruire ponti, strade, al lavoro in mezzo a un cantiere[…]Oppure rivoluzionario, uno che appicca il fuoco alle marce fondamenta dell'umanità[…]O un fannullone saggio[…]Non aveva che quest'unica vita da vivere, quest'unico io da giocarsi, era avido di felicità, di bellezza, fatto per la felicità e assetato d'ogni splendore!", pp. 13-14.
E invece egli scopre drammaticamente che alcun privilegio gli è riservato e che nulla è definito una volta per tutte: né sentimenti, né carattere, né persone e né cose. Scopre che il passato confluisce inesorabilmente nel presente e che, perciò, le sue azioni di un tempo hanno prodotto effetti incancellabili e ciò anche quando quelle stesse azioni giacciono nell'abisso della memoria. Il depotenziamento dei suoi comportamenti passati, infatti, vale solo per lui: le sue azioni sono vuote di senso e di significato, sì, ma non per quegli estranei prima tanto rassicuranti. Eccolo, un altro elemento tragico: le persone lo vedono, lo leggono e vi si relazionano non in base a quel che è ma a ciò che è stato. Egli arriva alla conclusione- più che altro una speranza- che gli esiti di questa sorta di condanna possono essere contrastati cambiando ambiente, trasferendosi in un'altra città.
Eppure, nonostante l'urgenza di questa istanza interiore, non può evitare al dubbio di insinuarsi nella sua mente: a cosa servirebbe il viaggio? Si tratterebbe, in sostanza, di un movimento solo esteriore che, probabilmente, non arriverebbe ad influire sul viaggio interiore, cioè non azzererebbe i ricordi, i rimpianti, i desideri inappagati. E ogni cosa ritornerebbe al punto di partenza a prescindere dal luogo che l'avrebbe ospitato.
Lui, comunque, non esita a spostarsi: da Vienna va a Roma nel tentativo di perdersi e poi rinascere liberato dalle incrostazioni del passato. Questo trasferimento, però, gli conferma quel che temeva: il viaggio non è una esperienza rigeneratrice.
Certo, le illusioni che si infrangono non è roba da poco. Comunque si tratta di un evento che costituisce una novità, comunque è una sorta di rinascita. Il fatto è che egli si ritrova rinato, sì, ma confuso. Una volta liberatosi forzatamente dalle e delle illusioni, si ritrova sprovvisto di punti di riferimento. Riconosce pure il bene e il male, sa che costituiscono dimensioni ben distanti tra loro eppure non è in grado di percepire dentro di sé questa distanza. È preda di una confusione prima linguistica e poi di sentimenti. È come se gli mancassero le parole per descrivere, innanzitutto a se stesso e poi agli altri, la nuova realtà in cui è stato catapultato dal venir meno delle illusioni.
Il trentesimo anno, insomma, porta con sé, nel protagonista del racconto, non solo l'istanza di una rinnovata prospettiva di sé e del mondo ma, prima ancora, di un nuovo linguaggio. Egli avverte come ambiguità di quello vecchio, l'unico di cui ancora dispone, generi l'ambiguità dei sentimenti rendendolo incapace di descrivere a parole contenuti, forme, senso e significato della realtà. Non può, al momento, che oscillare tra due opposti finendo per scivolare in un circolo vizioso dove la confusione dei sentimenti genera confusione linguista che, a sua volta, alimenta l'ambiguità e l'insufficienza semantica delle parole.
"Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace una buona volta! [...]Come tutti gli esseri umani non arriva a nessuna conclusione. Non vorrebbe vivere come una persona qualsiasi, ma nemmeno come una persona speciale. Vorrebbe andar coi tempi nuovi e al tempo stesso combatterli. […] Vorrebbe gli schieramenti e non li vorrebbe. È portato a comprendere la debolezza, l'errore, la stupidità, ma vorrebbe combatterli e stigmatizzarli. Tollera e non tollera. Odia e non odia. Non riesce né a tollerare né a odiare", pp. 46-47.

Le stesse tematiche, in altra forma, sono presenti in Tutto. Qui il cui protagonista è ancora un uomo, padre e partner, che oscilla tra immaturità e consapevolezza. O meglio, un uomo in cui i due stati – espressioni di due mondi, il desiderato e il possibile, con tutte le loro vari declinazioni quotidiane- si trovano così intrecciati da dar vita a una terza dimensione di difficile definizione. Un ibrido che non è compromesso, non è una zona grigia: è una terza via che non sempre risolve, non sempre aiuta a capire.
Immaturo, il protagonista del racconto, in varie circostanze, tutte riconducibili nel non sapere e non volere stare nel mondo del già dato, il mondo del conformismo come unica soluzione di vita. Immaturo, quando sembra che non sappia che farsene del figlio appena nato - e poi bambino- e quando si allontana dalla sua compagna, Hanna, non comprendendo la profondità del suo amore materno. Immaturo, quando si perde in frivolezze la scelta del nome per il figlio che sta per nascere, poi chiamato banalmente Fipps. Immaturo, quando sembra non cogliere la portata della tragedia che si abbatte sulla sua famiglia.
All'inizio della paternità, egli sembra soffrire del medesimo malessere- segno principe di immaturità- di cui soffrono-in genere- i maschi alla nascita di un figlio.
"Quanto più lui ampliava il suo raggio d'azione, tanto più io riducevo il mio. Mi sentivo schiacciato dal suo sorriso, da ogni espressione di giubilo, da ogni suo strillo. Non avevo la forza di soffocare sul nascere quel sorriso, quel cinguettio, quegli strilli. Perché quella sarebbe stata la cosa da fare!", p. 58.
Poi, proprio nel figlio egli riversa il suo desiderio di un mondo migliore, tale in quanto non convenzionale, non definito a priori, un mondo generatore di un nuovo linguaggio (unico strumento utile a descriverlo), un mondo in cui ognuno avrebbe potuto ottenere tutto e di più.
"Con lui tutto aveva inizio e non era escluso che tutto potesse cambiare radicalmente. Non avrei forse fatto bene a trasmettergli il mondo nudo e privo di significati? Non era affatto necessario che lo iniziassi agli usi e agli scopi, al bene e al male, che gli insegnassi a distinguere tra ciò che veramente è e ciò che è mera apparenza. Perché avrei dovuto tirarlo dalla mia parte, metterlo in condizioni di sapere, credere, gioire e soffrire? Qui, dalla parte dove noi ci troviamo, il mondo è il peggiore di tutti i mondi possibili e nessuno finora è riuscito a capirlo, ma dove si trovava lui nulla era deciso- Ancora nulla. Per quanto tempo ancora?", p. 58.
"Non era stato lui a organizzare il mondo, a causarne i guasti. Perché dunque avrebbe dovuto adattarsi a viverci? Imprecai contro l'anagrafe, le scuole e le caserme: Dategli un'opportunità! Date a mio figlio, prima che si rovini, almeno un'opportunità!", p. 62.
Proprio a questo punto egli mostra segni di profonda maturità, se tale può essere definita la consapevolezza che questo mondo, a lui così necessario e da lui così desiderato, comunque è un mondo impossibile: è una dimensione destinata entro i confini delle sue speranze e dei suoi desideri. Un mondo irraggiungibile, dunque, generatore di impotenza e anche di rabbia. Rabbia mista a delusione: rabbia verso il figlio che lo delude con il suo accontentarsi, mostrando in ciò l'entusiasmo dei bambini, del mondo così com'è. Il padre legge in questo normale atteggiamento infantile una forma di rinuncia a cercare altro, a desiderare altro. Una debolezza, insomma. Un difetto di carattere, quasi. Ed è in questo che il figlio, appunto, lo delude.
La delusione, però, è anche verso se stesso, verso la sua incapacità di elaborare le parole adatte a descrivere al figlio il mondo che vorrebbe per lui. Incapacità, vera e profonda inettitudine, a generare un nuovo linguaggio per dare forma e sostanza al suo desiderato. Alla fine, giunge a concludere che questo nuovo linguaggio non c'è: esisterà pure quel mondo, forse, ma ancora non sono disponibili le parole necessarie per rappresentarlo. Esiste quel mondo ma non esistono ancora via di accesso linguistiche che vi ci possano condurre. Punto e basta. E così egli rinuncia alla sua ricerca e, di conseguenza, rinuncia a educare il figlio non avendo nulla di nuovo da dirgli.
Eppure, proprio attraverso la sua impotenza arriva a comprendere l'amore materno di Hanna, il sentimento che lei prova per questo figlio che considera simile a tutti gli altri figli e di cui accoglie quel suo dedicarsi alle banalità così come fa ogni altro bambino della sua età. Hanna vuole avviarlo alla vita, quel figlio, vuole aiutarlo ad inserirsi nel mondo così com'è. Entrambi, insomma, voglio tutto per il figlio: la differenza sta nella qualità di quel tutto. Per il padre, è un tutto a cui nulla di questo mondo appartiene. La madre, invece, vorrebbe per Fipps tutto dal e del mondo esterno, il mondo che già c'è, quello già adesso accessibile.
Nessuno dei due potrà realizzare il suo desiderio: lui perché quel mondo, pur se esiste, non è rappresentabile. Almeno, non lo è per lui. Non lo è adesso. Lei, in quanto è la vita stessa-sottoforma di tragica fatalità-a privarla prematuramente del suo amato bambino.
È proprio quest'evento, così devastante per entrambi, che li avvicina o quantomeno che riporta il protagonista a considerare l'amore materno come un valore e non come un limite. E a considerare Hanna come suo unico riferimento, suo unico sostegno nel momento della resa di fronte all'inaccessibilità di un mondo altro e alla supremazia del mondo attuale, quel mondo a cui egli definitivamente cede.
"Ho smesso di pensare, vorrei invece attraversare il corridoio buio e raggiungere Hanna senza dover dire una sola parola […] Non per riaverla andrei da lei, ma per tenerla al mondo e perché lei tenga al mondo me, attraverso l'unione dolce e oscura. Se dopo questo abbraccio verranno dei figli, ebbene che vengano, che ci siano, che crescano, che diventino come tutti gli altri […] Li educherò come i tempi esigono, a metà per questo mondo di lupi, a metà secondo un ideale morale- e non darò loro nulla da portarsi in viaggio. Come un uomo del mio tempo: né proprietà, né buoni consigli", p. 72.

Ingeborg Bachmann,
Il trentesimo anno
(Das dreißigste Jahr,1961), tr. Magda Olivetti,
Feltrinelli, 1985.