Russel Banks, Il dolce domani (The Sweet Hereafter, 1991), tr. Massimo Birattari, Einaudi, 1997.


"È buio lassù, il paese è chiuso tra montagne d'ombra e la notte cala presto, come una coltre, ma allo stesso tempo lo spazio è enorme, infinito, quasi come un mare, ti sembra di leggere uno di quei grandi romanzoni di comesichiama, Joyce Carol Oates, o Theodore Dreiser, che ti fanno sentire allo stesso tempo circondato dall'oscurità e trasportato in un mondo molto più vasto di qualunque mondo tu abbia mai abitato prima. È un paesaggio che ti controlla, ti mette seduto e ti dice Adesso, amico, chiudi il becco, qui comando io", p. 77.
"Poi ho cominciato a vedere i primi segnali della presenza di gente, e qui intendo povera gente. Non come in città, certo, non come a Harlem o a Bedford-Stuyvesant, dove capisci che i poveri sono segregati, confinati da invisibili fili spinati, prigionieri a vita dei ricchi, che vivono e lavorano nei quartieri alti tutti attorno. Non c'è da meravigliarsi che li chiamano ghetti. Dovrebbero chiamarli riserve", p. 79.

"Le montagne coperte di neve incombevano sul paese, rimpicciolendolo, facendo sembrare gracili e instabili gli edifici. Il fumo di legna che usciva dai camini delle case scompariva nell'aria limpida. Il sole splendeva, la neve sembrava soffice come piuma, il cielo era un'immensa cupola azzurra e secondo la radio di Lake Placid c'erano venti gradi sotto zero. Questo posto ha un bell'aspetto d'inverno ma, credetemi, uno preferisce osservarlo da dietro il parabrezza di un'auto riscaldata", p. 93.
"Non ho detto niente. Sono rimasta lì a contemplare i miei sentimenti, nuovi e strani, lasciandomi inondare da loro (sollievo, gratitudine, solitudine) nominandoli a mio beneficio quando arrivavano, uno sull'altro, in serie, o ciclicamente, sarebbe la parola giusta, perché l'ondata di ogni sentimento sembrava essere la causa unica e diretta della successiva", p. 208.