"Per quale motivo manifestare una preferenza si è tradotto nello schierarsi, nel trincerarsi,
nell'alzare barricate?
E da quando esprimere un parere richiede muscoli, cinismo, attitudine alla lotta corpo a corpo?
E l'invettiva è sinonimo di avere un carattere forte? Cos'è accaduto che ha fatto sì che il disaccordo diventasse acerrima avversione?"

Se per esprimere un parere bisogna mettersi l'elmetto: quando l'ideologia invade la dimensione del gusto.
Alfonso Falanga, 21 febbraio 2024.
-Il gusto non è più gusto ma sbandieramento ideologico.
Da quando le ideologie si sono impossessate dei gusti, dei punti di vista, delle opinioni, del "secondo me…", dell'"io penso che…", del "mi piace" o "non mi piace"?
Per quale motivo manifestare una preferenza si è tradotto nello schierarsi, nel trincerarsi, nell'alzare barricate?
E da quando esprimere un parere richiede muscoli, cinismo, attitudine alla lotta corpo a corpo? E l'invettiva è sinonimo di avere un carattere forte?
Cos'è accaduto che ha fatto sì che il disaccordo diventasse acerrima avversione?
Per quale motivo, da un certo momento in poi, si è finito con il discutere sempre e solo di caratteri e mai di comportamenti? E perché, anche quando si parte dal comportamento, si finisce per criticare l'intero universo personale da cui quel singolo comportamento ha avuto origine?
-Beata ingenuità.
Lo so, sono domande a dir poco ingenue, ammantate di un candore adolescenziale e, se vogliamo, pure un po' patetiche. Si tratta di interrogativi che accetteremmo da chi, negli ultimi trenta/quarant'anni, abbia abitato su Marte e sia poi, per caso o per volontà, ripiombato in Terra. O da chi, in quello stesso lasso di tempo, sia stato sottoposto ad ibernazione e poi scongelato adesso, proprio adesso. Oppure, che sia nato appena una decina di anni fa.
Insomma, domande lecite se espresse da chi, per un motivo o per un altro, non abbia vissuto alcuni tra i più significativi eventi sociali, economici, politici e culturali che hanno segnato quegli anni e le cui diramazioni arrivano fino ai giorni nostri.
Riflettiamo allora su questi eventi assumendo la prospettiva di chi li ha vissuti come individuo, persona, soggetto di un processo articolato e complesso. Perciò quel che se ne ricava sono riflessioni personali sorrette da ricordi/ esperienze/ letture/ confronti/ ragionamenti accompagnati da speranze/ paure/ gioie/ rabbia/ illusioni/ delusioni. Si tratta del tentativo di dare (darmi) una spiegazione al perché, oggi, si rischia se si esprime un parere che si distanzi dai canoni standard, se si manifestano gusti artistici che non rientrano nel pensiero ricorrente, se si dice semplicemente mi piace o non mi piace di un film o di un libro o riguardo ad un brano musicale.
Verrebbe da chiedersi: tutto questo ambaradàn per così poco? Per poter dire appena appena mi piace o non mi piace oppure mi viene il dubbio che o, ancora, la penso diversamente da te....
Eh già, per così poco...anche perché quel poco è solo in apparenza tale. E' un poco che viene da lontano e condiziona la nostra vita, oggi, più di quanto appaia.
"...fa comodo, ai fautori della fine delle ideologie, sintetizzare il tutto in una formula buona per l'uso (sorretti, in ciò, dal titolo forse un po' troppo azzardato del libro) e che autorizza a pensare che, se anche la Storia è finita, figuriamoci come possiamo bistrattare, senza scrupolo alcuno. le teorie, le scienze, la politica, le tradizioni (cioè il passato, cioè l'esperienza, cioè la conoscenza, la competenza, l'apprendimento)".

-La fine delle ideologie.
Il presupposto alle riflessioni che seguiranno è quel relativismo culturale figlio della fine delle ideologie, causa o conseguenza della postmodernità.
Relativismo culturale: in estrema sintesi vuol dire fine delle grandi narrazioni, considerate o inutili o insufficienti per rappresentare la realtà, e superamento delle tradizioni e dei valori grandi ad esse associate. Si arriva, poi, agli inizi degli anni Novanta del XX secolo quando il politologo U.S.A. Francis Fukuyama (1952) decreta che, grazie a clamorosi ribaltamenti sociopolitici (vedi, ad esempio, la caduta del Muro di Berlino) e all'avanzato stato del progresso tecnologico-industriale, si è giunti al compimento del processo di evoluzione della società, quantomeno quella occidentale, ed alla definitiva supremazia del modello democratico-liberale su ogni altra forma di governo. Si è giunti, dunque, alla fine della Storia, proprio come sentenzia il titolo del saggio in cui lo studioso statunitense espone la sua teoria.
Certo, Fukuyama non intendeva dire semplicemente questo ma fa comodo, ai fautori della fine delle ideologie, sintetizzare il suo pensiero in una formula buona per l'uso (sorretti, in ciò, dal titolo forse un po' troppo azzardato del libro) e che autorizza a pensare che, se anche la Storia è da considerarsi superata, figuriamoci le teorie, le scienze, la politica, le tradizioni (cioè il passato, l'esperienza, la conoscenza, la competenza, l'apprendimento).
- La mediocrità diventa valore.
Quando il superamento delle tradizioni, con annessi e connessi, si trasferisce nei molteplici livelli della quotidianità, il risultato è semplice e immediato: tutti possono dire tutto e ogni cosa detta ha il medesimo valore del suo contrario.
Il che, se da un lato favorisce la libera espressione, dall'altro, quando l'espressione diventa fin troppo libera, legittima l'ignoranza- nel senso di ignorare come stanno veramente i fatti- al punto che la mediocrità diventa valore (mediocrità: la conoscenza ridotta a semplice informazione-nel migliore dei casi-e l'approfondimento che coincide con la chiacchiera da bar). La mediocrità, progressivamente, non è più semplicemente accettata ma non viene più riconosciuta come tale.
"Quel che invece accade, per lo più, è considerare la pratica come alternativa alla teoria: teoria che non è più necessaria, anzi è di intralcio...".
-Enfatizzazione della pratica e svalutazione della teoria.
Superamento delle tradizioni vuol dire anche superamento della teoria (dunque di trasmissione e di apprendimento) a scapito della pratica. Il che non implicherebbe chissà quali dispiaceri se la pratica venisse intesa come sperimentazione della teoria, ovvero come messa in atto di quanto si è appreso per poi, eventualmente, confermarlo o confutarlo oppure aggiustarlo. Quel che invece accade è che la pratica si conferma quale alternativa alla teoria: teoria che non è più necessaria, anzi è di intralcio, è un residuo del passato (anche se elaborata un minuto fa) (è passato a prescindere e il passato è irritante obsolescenza a prescindere). La teoria, in quest'ottica, è l'espressione di quelle grandi narrazioni che sono state ormai superate e giacciono, sgonfiate e sconfitte, ai margini del processo socioculturale.
Se la pratica non necessita più della teoria, dell'apprendimento e dell'approfondimento, deve pur poggiarsi su qualcosa. Ha pur sempre bisogno, la pratica, di una fonte di energia che la alimenti, la incentivi, la galvanizzi. Anche perché la pratica si fonda sulla ripetitività di un comportamento e sull'accumulo, ovvero sul numero di volte in cui si mette in atto quel comportamento. Perciò, la pratica ha costantemente bisogno di una spinta.

-L'avvento dei form-attori e l'inganno del volere è potere.
Questo scenario, tra metà degli anni Ottanta e inizi dei Novanta del XX secolo (il fenomeno prosegue tutt'oggi), diventa il palcoscenico dei famosi/famigerati motivatori, coach personali, psico-qualcosa. In sintesi, dei form-attori. Veri e propri one man show che si propongono, alcuni con grande seguito, quali guru della crescita personale, sacerdoti laici di una religione laica che si fonda sul mito della personalità e della motivazione (termine che, in questa prospettiva, tutto dice e nulla spiega), maestri di vita che garantiscono felicità, successo, perfezione, realizzazione dei propri sogni (termine che sostituisce obiettivo, progetto, piano di lavoro) e tutto ciò semplicemente credendoci. Non mollando mai. Accrescendo la propria autostima (concetto che, secondo quest'ottica, implica che l'individuo non ha dei limiti se non quello di credere di averne). Forzando, o sforzando, la volontà.
Si afferma definitivamente l'inganno del volere è potere. La variabile personale prende il sopravvento sul metodo, sulla strategia, sulla competenza. La ripetitività, sempre più intensa, si afferma quale strategia d'azione privilegiata che rende ancora più superflui la teoria e l'apprendimento. Ciò accade nei molteplici segmenti del vivere sociale anche se è nel mondo delle professioni, specialmente delle libere professioni, che si ergono vittoriosi i miti della motivazione, della volontà, del crederci e dell'inseguire i propri sogni, dell'autonomia della pratica rispetto alla teoria e della teoria come impiccio (poi arriva il covid, scompagina tutto e si fa beffe della forza di volontà, mostrando e dimostrando che quel che serve è studio, competenza e progettazione).
"Si fa strada, così, il principio della deresponsabilizzazione: tutti possono dire tutto e il suo contrario e, grazie alla deresponsabilizzazione, possono dirlo a tutti senza timore di subirne le conseguenze".

-La nuova prospettiva spazio-tempo.
Impossibile non tenere conto di come, in quegli anni, le tecnologie informatiche stravolgano i rapporti personali e la normale concezione spazio-temporale dando origine a quella società liquida così accuratamente descritta, nei suoi molteplici aspetti, da Zygmunt Bauman: in estrema sintesi, lo spazio non ha più limiti e il virtuale (qualcosa che non c'è ma, di fatto, c'è, eccome) assurge a dimensione, se non prevalente, quantomeno parallela al reale.
Che le distanze siano azzerate non vuol dire che sia facile e immediato guardarsi negli occhi, anzi: la liquidità dei rapporti consente a chiunque di dire la propria senza essere visto (che non significa che non lasci tracce, però).
Allo stesso modo, anche le distanze temporali si azzerano e il tempo- quello sequenziale, che va dal passato al presente e si proietta nel futuro e non torna indietro- si riduce ad una minuscola frazione temporale che appartiene al presente e che si ripete all'infinito. Tutto accade in tempo reale (il famigerato basta un click): l'adesso esaurisce ogni scansione temporale.
Se tutto accade adesso (l'appiattimento sul presente di cui parlano i sociologi, inascoltate Cassandre moderne, già agli inizi degli anni '90), non c'è più il futuro. Non serve più programmare, pensare a medio e lungo termine (nemmeno a breve) (alla fine, nemmeno pensare serve, che a tutto ci pensa la tecnologia). Stando così le cose, la teoria (la conoscenza, la competenza, la trasmissione del sapere e il suo apprendimento) esaurisce definitivamente il suo valore.
Se non c'è più futuro viene a mancare anche il senso di responsabilità delle proprie azioni: senza futuro, infatti, le azioni non hanno più conseguenze dal momento che l'effetto di quel che dico e/o faccio è qualcosa che si palesa dopo l'azione. Ma il dopo è, ormai, evaporato, dissolto in quell'adesso di cui si è accennato poco fa.
Si fa strada, così, il principio della deresponsabilizzazione: tutti possono dire tutto e il suo contrario e possono dirlo a tutti, senza timore di subirne le conseguenze.
-Emozioni liquide in una società liquida.
In una società liquida i rapporti sono altrettanto liquidi: gli individui barattano la loro concretezza con la foto di un profilo social, con un avatar, con un nickname. Svanisce, così, la materialità dei soggetti coinvolti in quei rapporti: la loro corporeità si perde nel virtuale (eppure, paradossalmente, sono gli anni dell'apoteosi delle apparenze, del bello a tutti i costi, dell'estetica, del lusso e dell'effimero). Quando ciò accade, è inevitabile che anche le emozioni, linfa di ogni contatto umano, diventino liquide e si svuotino di ogni traccia di aderenza alla realtà e alla persona: realtà e persona, infatti, sono due entità non-entità, due inconsistenze.
Le emozioni, perciò, finiscono per tradursi in slogan, messaggini, dichiarazioni folli di un folle amore che dura appena il tempo di annunciarlo per poi perdersi nell'enfasi della spettacolarizzazione. Ecco, le emozioni, tutt'al più, servono a fare spettacolo e lo fanno attraverso la subitanea condivisione sui social, mediante la lacrima facile, con l'applauso facile (lì dove l'applauso -se fossimo una società concreta e che non faccia dello spettacolo la sua ragione ultima- sarebbe a dir poco inopportuno), grazie alle dichiarazione di un amore privato in luogo pubblico. Servono a questo, le emozioni, ma non a avvisare il soggetto dell'esito delle sue azioni.
La liquidità delle emozioni, unita all'appiattimento sul presente, dà ulteriore vitalità alla deresponsabilizzazione: tutto di può dire a tutti per poi, se fa comodo, negare quanto si è appena detto. Il detto, infatti, appartiene al passato: un passato che non c'è.
La liquidità colpisce ancora.
"Questo invalidante senso di precarietà ha generato di colpo- o, per meglio dire, ha recuperato- il bisogno di certezze, di uniformità, di pensarla tutti allo stesso modo. Il rifugio di fronte all'imprevisto, all'ingovernabile, al misterioso, al minaccioso, diventa l'uniformarsi ad un unico modello comportamentale, il conformarsi ad una sola linea di pensiero".

-Il futuro bussa alla porta...e presenta il conto.
Il futuro, però, ben presto si fa sentire. Si palesa in tutta la sua autorevolezza. Proprio quel futuro di cui si erano smarrite le tracce con l'avvento di "basta un click". E il futuro porta con sé smarrimento.
Smarrimento, perché inatteso. Perché indesiderato. Perché infrange due basilari illusioni dei "favolosi" anni Ottanta e dei quasi favolosi anni Novanta del secolo precedente: l'eterno presente e la deresponsabilizzazione.
Il futuro reca con sé gli esiti di comportamenti passati azzardati, egoistici, gretti in quanto non ancorati ad alcuna prospettiva, privi di intelligenza, appiattiti sulla pratica dei "praticoni" spacciati e spacciatisi per esperti.
Su quel conto sono sottolineati gli esiti dei comportamenti planetari (termine che non assolve, immergendoli in un unico pentolone, i singoli dalle loro responsabilità individuali) che hanno generato il cambiamento climatico, ad esempio. O quei comportamenti, particolarmente di noi europei, intrisi di ignavia e di disinformazione con cui ci siamo per decenni protetti dalle notizie riguardanti guerre lontane, cullandoci dell'idea di una pace destinata a noi, solo a noi, e per sempre. Ciò, fino a quando la guerra ha bussato alla porta di casa nostra: guerra guerreggiata, a pochi passi da noi (abbiamo avuto l'ardire di mostrarci stupiti ripetendo la fake che in Ucraina si stava combattendo una guerra su suolo europeo per la prima volta da settant'anni, dimenticando colpevolmente i massacri nella ex - Jugoslavia di appena trent'anni fa, quelli nel Kosovo di poco dopo, quelli in Nagorno-Karabakh appena terminati. E per non dire della Cecenia, del Donbass...),così come gli esiti politici, economici e umanitari di quelle guerre lontane che, nel mondo globalizzato, tanto lontane più non sono.
Il futuro ha portato con sé anche il crollo dell'illusione che la modernità, con le sue conquiste scientifiche, ci abbia messo per sempre al riparo da quelle malattie che, in passato, decimavano intere collettività. Però, poi, abbiamo fatto la triste scoperta che quei mali, sì, li teniamo lontani, ma che essi non esauriscono le minacce alla nostra incolumità. E abbiamo constatato che gli scienziati, quelli a cui demandiamo l'onere di proteggerci, a volte si mostrano smarriti e impreparati di fronte all'imprevisto proprio come se il loro lavoro fosse altro rispetto a rendere, con quotidiano impegno, quell'imprevisto sempre più prevedibile. E lo stesso vale per l'esperto nei campi della politica, dell'economia, delle scienze sociali. Il loro disorientamento di fronte al cigno nero (termine, a volte, di comodo, comodo alibi a quel che non si è previsto perché "semplicemente" non si è stati capaci di coglierne i segnali) ha alimentato fortemente il nostro disorientamento facendoci sentire drammaticamente esposti a minacce che, noi comuni mortali, non siamo assolutamente in grado di fronteggiare.
Questo invalidante senso di precarietà ha generato di colpo- o, per meglio dire, ha recuperato- il bisogno di certezze, di uniformità, di pensarla tutti allo stesso modo. Il rifugio di fronte all'imprevisto, all'ingovernabile, al misterioso, al minaccioso, diventa l'uniformarsi ad un unico modello comportamentale, il conformarsi ad una sola linea di pensiero. Il contrario di quel relativismo culturale da cui siamo partiti, insomma: non è più sostenibile, ne va della tenuta mentale del singolo come della collettività, che tutti possano dire tutto a tutti.
Il gruppo, coeso, raccolto intorno ad un unico pensiero, è il solo rifugio di fronte a un futuro che non costituisce più una somma di opportunità (ricordo, questo, di anni passati, diciamo dal dopoguerra a metà degli anni Novanta del XX secolo) ma, in per un motivo e per un altro, sempre e solo una minaccia.
Perciò, a nessuno è permesso di incrinare quella coesione. Quell'unico argine allo smarrimento. A nessuno.
"La collettività diventa un crogiuolo di etiche, linguaggi, culture, storie e Storie, tutte con dignità e diritti da salvaguardare. E' impresa ardua, stando così le cose, che si riesca a non urtare la sensibilità di uno di questi microcosmi".

-Dal dire tutto al dire niente...o poco.
Come spesso accade, il contrario di una cosa sbagliata non è la cosa giusta.
Se il relativismo culturale, quello del tutti possono dire tutto a tutti, ha fatto della mediocrità un valore, il bisogno di ricomporre i ranghi, di recuperare le miriadi di particelle parlanti per includerle in un unico discorso sorretto da un'unica idea...beh, nemmeno quella è una grande trovata.
Se prima si poteva dire tutto, dopo si può dire poco o quasi niente. Comunque, niente che non sia previsto, prevedibile e riconducibile a quell'unica idea. A un main stream, che finisce per scomporsi in una miriade di main stream ognuno riconducibile a un settore della vita sociale, politica e culturale.
Il fenomeno che ne consegue prende il nome di cancel culture, derivazione della cosiddetta cultura woke, tradotta nella pratica quotidiana in politically correct. Si tratta di dinamiche socio-culturali che nascono Oltreoceano e giungono rapidamente fino a noi. Eventi che hanno origine da una buona causa ovvero dal sollecitare, nei politici così come nei media nonché nei privati cittadini, perenne attenzione verso espressioni verbali e non verbali lesive verso i diritti e l'integrità morale e culturale delle minoranze. Insomma, è una persistente e pervasiva opera di controllo e contrasto verso ciò che non va detto.
Il fatto è che, in tal modo, la collettività finisce per trasformarsi in un agglomerato di minoranze ognuna con la sua etica, il suo linguaggio, la sua cultura, la sua storia e la sua, di Storia. La collettività diventa un crogiuolo di etiche, linguaggi, culture, storie e Storie, tutte con dignità e diritti da salvaguardare. E' impresa ardua, stando così le cose, che si riesca a non urtare la sensibilità di uno di questi microcosmi.
Risultato: o si sta zitti oppure, volendo dire la propria, si indossa l'elmetto.
Perché quel che si dirà, pur non intenzionalmente, solleciterà l'indignazione di qualcuno. E, se ne può esser certi, si subirà la reazione di quel qualcuno.

-Non è solo linguaggio.
La questione è sì linguistica ma non si esaurisce in una sostituzione di parole a rischio con altre meno scabrose o del tutto innocue, tanto innocue da depotenziarsi e svuotarsi di significato.
La questione, a partire dal linguaggio, non può non estendersi ad altri significativi aspetti dell'esistenza: sfocia nei rapporti personali, ad esempio, elevando il loro grado di conflittualità. Ne risente la politica, che rivede le sue modalità espressive fino a giungere a punte estreme di banalizzazione del messaggio, un messaggio, così, diventa chiacchiera quotidiana.
Ricompaiono le grandi narrazioni: questa volta, però, riviste rispetto al format originale, animate come sono da nuovi attori e nuove storie, al punto che è la Storia stessa ad essere rivista in alcune sue parti essenziali.
La situazione, perciò, si presenta alquanto complicata. E' pur vero che questo fenomeno, così sinteticamente descritto, costituisce la fotografia di una società post-post-moderna come quella attuale, una società più che mai articolata, complessa, complicata. Una società dove emergono nuove minoranze e, allo stesso tempo, le minoranze del passato si trasformano in maggioranza. E viceversa.
Le storie, perciò, sono tante. E la Storia, pur preservando il suo nucleo originario, è costretta a rivisitazioni.
Certo, è alto il rischio dell'affermarsi di una nuova forma di relativismo culturale e sociale a causa del quale il principio del tutti possono dire tutto a tutti rischia di trasformarsi tutti possono dire niente e a nessuno.
La sfida di questo secolo, per gli uomini di buona volontà e di comprovata competenza, è riuscire a gestire questa complessità e a farlo favorendo l'incontro (che non significa necessariamente essere d'accordo ma solo accordarsi, quando serve) tra attori che, semmai, non ne vorrebbero sapere l'uno dell'altro. Oltre, perché no, a favorire una nuova competenza, ovvero comunicare e dire la propria abbassando i toni.
Bibliografia
Zygmunt Bauman, Vita liquida (Liquid Life, 2005), tr. Marco Cupellaro, Laterza, Bari, 2008.
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Francis Fukuyama, La fine della Storia e l'ultimo uomo (The End of History and the Last Man, 1992), tr. Delfo Ceni, BUR Rizzoli, Milano, 2011.
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Sitografia
Paolo Rosa Adragna, Cancel culture, che cos'è davvero la "cultura della cancellazione", su la Repubblica, 9 giugno 2021.
Che cosa è la cancel culture, al centro di un grande dibattito sulla libertà di espressione, su Il Riformista, 14 luglio 2020.Emanuele Monaco, Fenomenologia della Cancel culture: tra Woke Capitalism e diritti delle minoranze, https://site.unibo.it/canadausa/it/.
Riviste
Giuseppe De Ruvo, Niente innocenza niente impero, in Limes, Rivista di Geopolitica, AA.VV, America, 11-2022.