-Thomas Clayton Wolfe, Storia di un romanzo (The Story of Novel, 1935), tr. Igina Tattoni, Fazi, 1997.

"Scrivevo sempre con la certezza che il mio scritto sarebbe stato letto ma mai con l'esatta percezione di un pubblico specifico. Non sapevo a quali persone sarebbe arrivato; non conoscevo l'obiettivo, il fine, la destinazione del mio sforzo, ma l'energia infuocata di una creatività indomita continuò a bruciare per due anni e più e sapevo che il libro sarebbe stato preso, letto, apprezzato e io sarei stato stimato senza però mai sapere da <chi>", p. 16.
"In un primo momento la preoccupazione più grande non fu l'incertezza o la mancanza di fiducia in me stesso, era piuttosto qualcosa che derivava dall'imprevista e terribile sensazione di nudità, dall'essermi esposto pubblicamente. Avevo voluto la fama, un libro, un pubblico e un editore con l'intensità con cui può volerli un giovane, e ora li avevo ottenuti. Ma non era accaduto nel modo che credevo ed ero preoccupato, confuso e con uno strano senso di colpa e di responsabilità. Ora ero un giovane scrittore americano e la gente nutriva speranze e timori per il mio futuro […] Era stato solo un fuoco di paglia? Ce l'avrei fatta? Che ne sarebbe stato di me?", p. 20.
"Volevo che pensassero che avevo scritto un buon libro e che il mio libro ottenesse la stima e l'onore che avevo desiderato per «lui» - in breve volevo essere un uomo famoso e di successo e allo stesso tempo condurre la stessa oscura e tranquilla esistenza di sempre…", p. 21.
"…e tale era allora la forza, l'incanto e il fascino esercitati sulla nostra immaginazione da quel favoloso nome, Parigi, che pensavo che realmente lì si potesse lavorare molto meglio che in qualsiasi altro luogo della terra, lì dove persino l'aria era impregnata dell'energia dell'arte e dove l'artista avrebbe potuto inventarsi una vita più fortunata e felice di quanto non avrebbe mai potuto fare in America. Ora capivo che tutto questo era sbagliato. Avevo semplicemente capito che quello che molti di noi facevamo in quegli anni fuggendo dai nostri paesi in cerca di un rifugio all'estero, in realtà non era un luogo dove per lavorare ma un luogo dove sottrarsi al lavoro, e quello da cui stavamo veramente fuggendo in quegli anni non era il filisteismo, il materialismo e ogni bruttura della vita americana, ma l'esigenza di una lotta onesta con noi stessi e il compito difficile di trovare in qualche modo, dentro di noi, la materia di cui vivere, di trovare nella nostra vita e nella nostra esperienza la sostanza e il materiale per l'arte, come ha dovuto sempre fare, per non perdersi, ogni uomo he abbia scritto qualcosa di vitale", p. 31.
"Ero solo con il mio lavoro e d'un tratto mi resi conto che dovevo essere solo, che in quel momento nessuno, per quanto lo desiderasse, sarebbe potuto venirmi vicino e aiutarmi. Era come essere da soli in un luogo deserto di fronte a un nemico irriducibile e sapere di non potere contare che su se stessi […]Per la prima volta capii un'altra cruda , terribile verità che ogni artista alla fine deve scoprire: che il lavoro di un uomo, la cosa cioè per cui egli vive e senza la quale non ha niente, non solo contiene il seme della vita, ma anche semi di morte, e che ciò che ci dà vita, la forza creativa che è in noi, che ci sostiene e ci arricchisce, sarà anche capace di distruggerci come una lebbra se la lasciano marcire, prima che nasca, nell'intimità di noi stessi", p. 55.
"Sapevo, in breve, che una cellula luminosa del cervello, della memoria e del cuore avrebbe d'ora in poi brillato per sempre-il tarlo si nutriva e la luce si accendeva di notte, di giorno, in ogni momento di veglia e di sonno della mia vita-non c'era rimedio alcuno […] che avrebbe potuto spegnerla e che mai più, finché la morte non avrebbe messo il suo sigillo nero e finale alla mia vita, sarei riuscito a fuggire. Seppi infine di essere diventato uno scrittore: seppi infine che cosa accade a un uomo che fa della vita dello scrittore la sua vita", p. 68.